Giovanni Patari nacque a Catanzaro nel 1866. Studiò nel liceo Galluppi, ma conseguì la licenza liceale nel Filangieri di Monteleone, oggi Vibo Valentia. Laureatosi in Giurisprudenza, fu sviato dalla toga da Guido Mazzoni e Giuseppe Chiarini che lo proposero come professore a Ferdinando
Martini. La prima produzione che il giovane iniziò nel campo delle lettere apparve su Sebetia, sul Fortuio e sul Piffero, per eccellere sull’Avvenire Letterario di Milano, su Lettere e arti di Bologna e sulla Rassegna pugliese. La canzone, Accanto a Roma composta dal giovane Patari fu tradotta in lingua spagnola dal professore Diaz Plaza dell’università di Madrid e molte altre sue poesie ebbero la versione francese per opera di Paolo Bourget. Per capire l’arte e la fortuna di Patari e comprenderne il ruolo significativo che, dai primi anni del ‘900, ricoprì nella città di Catanzaro è opportuno considerare attentamente la sua biografia.
Patari approdò alla poesia dalla cronaca: proprio dalla cronaca cittadina, dalla curiosità quotidiana, nei giornali e giornaletti che si stampavano in città alla fine dell’ottocento. Sul corriere Calabrese nel 1883, quando aveva sedici anni, pubblicò in dialetto quello che gli procurò subito una larga popolarità: I muzzuni: Prima ma ncariscianu i sigarri, un sonetto scritto in occasione dell’aumento del prezzo dei sigari. Il lavoro andò disperso, ma gli valse l’amicizia di Giuseppe Chiarini e di Arturo Graf che ebbero modo di leggerlo. Più tardi, quando era studente all’università di Napoli, cominciò a collaborare al periodico dialettale catanzarese ‘U Strolacu, che aveva come sottotitolo Giornale del popolo serio e umoristico; fu fondato e diretto (dal 1888 al 1893 ) da Raffaele Cotronei, che assunse lo pseudonimo di Lellè.
‘U Strolacu nacque come settimanale lo vollero in dialetto sia il suo fondatore sia Giovanni Patari e altri entusiasti intellettuali collaboratori.
Si dibatteva allora nella penisola il problema dell’unità linguistica nazionale, dopo quella politica, che aveva dato tanto prestigio e potere ai Savoia e molta miseria al Sud. La lingua era considerata la parlata dei colti; al contrario il dialetto, che i manzoniani definivano “gergo delle coppole”, fu sempre coltivato dal popolo, per questo emarginato nella sua cultura e anche in quelle espressioni di letteratura popolare che venivano trascritte dal borghese colto.
Ed ecco che il parlante delle coppole trova il modo di elevarsi, perché il suo dialetto rappresenta il nerbo della sua identità espressiva, la testimonianza più vivace della sua storia, l’espressione della sua fantasia. Il dialetto per Cotronei e Patari, giovani intellettuali catanzaresi, conservava tutte le espressioni del luogo natio, originarie, legate al sapore dell’invenzione fresca: come i modi di dire la cui lingua poi si appropriava, aggiungendoli a comuni denominatori, staccandoli dall’occasione della loro nascita.
I due giovani sentono che soltanto attraverso il dialetto si può stabilire un contatto con una sorta di lingua perpetua, passata quasi inconsapevolmente di bocca in bocca.
Nei primi del ‘900, e anche molto prima, la lingua della maggioranza dei Catanzaresi era soltanto il dialetto, nella famiglia, nelle piazze, ‘nte i rughi.
Per tutti questi motivi nacque ‘U Strolacu, primo settimanale dialettale calabrese che pubblicava poesie in vernacolo e in italiano, novelle e bozzetti, aneddoti, sciarade e una diffusa cronaca locale attraverso gustosissimi dialoghi di popolane.
Furono redattori del settimanale Michele Cozzupoli (Pica) uno dei migliori parroci catanzaresi per ingegno e bontà; Filippo De Nobili (Fiderno), Orsini Mazzotta (Orma), Antonio Scalese
(Ascanio Selento) ottimo maestro elementare e diligente raccoglitore di canti, proverbi e novelle popolari; Carlo De Nobili (Orlac) che fu il secondo bibliotecario della Comunale.
Completava l’allegra brigata l’eclettico Giovanni Patari, che nell’agosto del 1892 pubblicava la poesia in lingua “Il bivio”; seguiranno in dialetto catanzarese Dintra ‘u salona e Spara ‘a gloria, dove il poeta si firma Mastr’Arcangelu. Nel marzo del 1893, sullo stesso periodico, vede la luce ‘A Simana Santa, che comprende I Tenabri, ‘A Cena, I supurchi, L’Agonia e aggiunge Spara ‘a gloria, che aveva già pubblicato un anno prima. Questa volta si firma Patra Giuanni.
Dopo quella pubblicazione scelse il genere più popolare e più antico, il più rapido e il più elementare, e insieme il più epigrammatico, qual è quello del sonetto; un brevissimo genere di
composizione che permetteva il massimo della varietà nell’insieme, e la più rapida unità di ogni singolo e compiuto momento creativo.
Patari nel sonetto fu veramente un maestro, anche se nelle sue 500 composizioni non raggiunse mai le vette della poesia.
Optò per il quotidiano, ciò che si rappresentava dinanzi ai suoi occhi, un mondo nel quale pareva non accadesse nulla di nuovo, e tutto sembrava riconfermare la consueta immobilità.
A differenza di certi intellettuali catanzaresi del suo tempo, persone di pessimo gusto in fatto d’arte e di poesia, Patari non vedeva il popolino chiuso in un cerchio di incultura, accecato dallo stomaco vuoto e incapace di superare l’angustia del proprio linguaggio.